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Sri Ganesha

2023-09-28 17:24

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Sri Ganesha

Ganah in sanscrito significa "moltitudine" ed /sha significa "Signore". Ganesha vuol dunque dire "Signore di tutti gli esseri".

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Ganah in sanscrito significa "moltitudine" ed /sha significa "Signore". Ganesha vuol dunque dire "Signore di tutti gli esseri". È figlio primogenito del Signore Shiva, il quale rappresenta la Realtà Suprema, la più elevata forma di coscienza (Cit­Svaroopa).

Nel Padma Puràna si narra che la Madre del Cosmo, Parvati (cioè Colei che pos­siede i tre pàrva, ossia gli aspetti della Sapienza, della Volontà e dell'Azione), abbia generato l'Universo nel momento di maggior equilibrio fra le tre qualità. La Madre universale sposò Shiva, cioè Dio o la Coscienza Suprema: questo matrimo­nio indica l'unione del Finito coll'Infinito. Un giorno Madre Parvati si cosparse il corpo di olio e polvere fragranti e, con il profumo emanato, creò una forma maschile con la testa d'elefante. Poi immerse questa creatura nelle acque del sacro Ganga, seconda divina consorte del Signore Shiva. A contatto con l'acqua, quell'immagine prese vita. La Madre Parvati e la Madre Ganga lo chiamarono "Figlio". Tutte le divinità e i saggi resero omaggio a quel bellissimo essere e lo chiamarono Gàngeha, il figlio di Ganga. II figlio di Shiva è il simbolo di colui che ha realizzato la Consapevolezza Su­prema, che ha scoperto la Divinità in se stesso.

Ci sono altri nomi che vengono attribuiti a Ganesha: Ganapati (Condottiero dei Gana o Esseri Celesti o Deva); Gajànana (Gaja = elefante, Anana = faccia: Faccia d'elefante); Vinàyaka (Supremo Condottiero, letteralmente "Colui che non si fa condurre"); Vighneshvara (Signore di tutti gli ostacoli). Quest'ultimo attributo viene ricordato in tutti i rituali d'iniziazione indù e, secondo la sua etimologia, sta ad indicare la completa vittoria su tutte le sfide della vita. È comune credenza che, se Lo si invoca, nulla può resistere alla Sua Grazia, nemmeno un potere divino: niente è impossibile ad Essa.

Secondo la mitologia indù, Ganesha sposò Lakshmi e Sarasvati, che rap­presentano rispettivamente le divinità della Prosperità e della Conoscenza; que­ste unioni non sono che il simbolo della Sua abilità sia nella Conoscenza (Vidyà) che nelle imprese terrene (Avidyà). Gli Occidentali rimangono molto impressio­nati dalla figura mitologica con cui viene rappresentato Ganesha: una divinità con la testa d'elefante, una zanna mozza, il ventre obeso, una gamba ripiegata e sol­levata da terra, quattro braccia, del cibo davanti e un topo vicino che sembra chie­dergli il permesso di mangiare. In verità, questa non è che una rappresentazione mistica, i cui molteplici e profondi signifi­cati sono affidati a dettagli, che esprimo­no uno stato di perfezione e ne descrivo­no i modi per raggiungerla.

La grande testa d'elefante pone l'accento sulla dimensione delle capacità di apprendimento, essenzialmente intellet­tuali, necessarie a chi scruta nel pensiero Vedantico e sulla suprema saggezza, che è la mèta del ricercatore.

Le enormi orecchie simboleggiano la grande sapienza dell'educazione spiritua­le, frutto dell'ascolto (Shravana) delle verità eterne e della riflessione (Manana) su quelle verità.

La proboscide sta ad indicare le capacità intellettive emanate dalla saggezza e manifestantisi nella facoltà della discrimi­nazione. Vi sono due tipi di intelletto: ele­mentare e sottile. L'intelletto elementare, ad uno stadio rudimentale, è quella forma di discriminazione che si applica alle cose del mondo. Esso ci permette di operare distinzioni fra le realtà terrene, fra il gior­no e la notte, il bianco e il nero, la gioia e il dolore, ecc. L'intelletto sottile ci permet­te di discriminare fra concetti più elevati come il finito e l'infinito, il reale e l'irreale, il trascendentale e il fenomenico. Un uomo che raggiunge la realizzazione di Ganesha possiede appieno i due tipi di intelletto: è in grado di comprendere per­fettamente sia le realtà terrestri che quel­le trascendenti. La proboscide simboleg­gia pure uno strumento capace sia di sra­dicare un albero che di cogliere un fiore. Non è facile trovare un mezzo meccanico che abbia insieme le qualità di forza e di delicatezza: una chiave inglese può ser­rare la catena di una ruota, ma non ripa­rare un orologio da polso. Nella probosci­de dell'elefante va intravista la malleabi­lità dell'attitudine discriminativa perfetta, capace di penetrare sia nel mondo mate­riale che in quello soprannaturale.

Questi due mondi sono rappresentati dalle due zanne di Ganesha, di cui una è spezzata, a ricordo di una lotta con Parashuràma, un grande discepolo del Signore Shiva: essa ricorda che chi ha lottato per la verità e ha compreso vera­mente il Vedànta è al di là di ogni duali­smo. L'uomo ordinario si dimena tra le alterne vicende della vita. L'uomo perfetto è, invece, fondato sulla Saggezza più ele­vata, non è affetto da simpatie (ràga) o da antipatie (dvesha), non viene contaminato dalle circostanze buone o avverse, non si fa condizionare da avvenimenti gradevoli o sgradevoli. In altre parole, pur vivendo fra le contraddizioni del mondo, rimane inalterato. Caldo e freddo, gioia e tristez­za, onore e disonore non lo turbano né lo influenzano. Oltrepassando il dominio de­gli opposti, egli diviene uno Dvandvàtta, uno che trascende gli opposti, la dualità, Ganesha in persona.

Altra caratteristica di Ganesha è il ventre pingue e un grande appetito, che stanno ad indicare la capacità di "ingerire" qua­lunque esperienza, freddo e caldo, guerra e pace, nascita e morte, mentre ogni genere di tribolazioni continua a lasciarlo indifferente.

Nella mitologia indù si narra la seguente storia.

Il tesoriere del Paradiso, Kubera, si recò un giorno sul monte Kailash per avere il darshan (la visione) di Shiva. Poiché era vanitoso, Lo invitò ad una cena nella sua sfarzosa città, Alakapuri, in modo da poterGli esibire tutte le sue ricchezze ed i suoi sfarzi. Il Signore sorrise e gli disse: "Non posso venire, ma puoi invitare Ganesha. Ti avverto che è un vorace mangiatore!"

Per nulla preoccupato, Kubera era pronto a soddisfare con la sua opulenza anche una fame insaziabile come quella di Ganesha. Prese con sé il piccolo Vinàyaka e lo portò nella sua città. Provvide ad offrirgli un bagno cerimoniale e a rivestirlo di abiti sontuosi. Dopo questi riti iniziali, il grande banchetto. Mentre la servitù di Kubera si faceva in quattro per servire tutte le portate, il piccolo Ganapati si mise a mangiare, mangiare e mangia­re... Il suo appetito non si arrestò neppure dopo aver divorato le portate destinate agli altri ospiti. Non c'era nemmeno il tempo di sostituire una portata all'altra, che il piccolo Ganesha aveva già divorato tutto e, con segni di impazienza, attendeva nuovo cibo. Divorato tutto quanto era stato preparato, Ganesha incominciò a mangiare decorazioni, suppellettili, mobili, lampadari,... Atterrito, Kubera si prostrò davanti al piccolo onnivoro e lo supplicò di risparmiargli il resto del palazzo.

"Ho fame. Se non mi dài altro da mangia­re divorerò anche te!", disse a Kubera. Il dio della ricchezza, disperato, si precipitò al monte Kailash per chiedere a Shiva un rimedio urgente. Il Signore gli diede allora una manciata di riso abbrustolito, dicendo che quello l'avrebbe saziato, Ganesha aveva già ingurgitato quasi tutta la città, quando Kubera gli donò umilmente il riso. Ganesha si saziò con quel cibo e si calmò.

Questa storia, che proviene dai Puràna, insegna che l'uomo attratto dalla perfezio­ne non viene saziato dalle gioie monda­ne, simboleggiate dal banchetto di Kubera. Inseguire i beni materiali non potrà mai dare pace, soddisfazione o feli­cità. L'unico modo per conseguire la pace più completa sta nel consumare le yàsanà, i desideri occulti della mente. Questi desideri, infatti, sono come il riso abbrustolito che ha perso la germinabilità. La pace e la beatitudine arrivano perciò quando si sono distrutti i desideri più reconditi. E, a somministrare questa man­ciata di benèfico riso, è il Maestro Supremo, il Signore Shiva, che col fuoco della Conoscenza cauterizza il desiderio sul nascere, togliendogli ogni possibilità di svilupparsi.

Ganesha siede con una gamba sollevata da terra e l'altra col piede che poggia a terra. I Puràna lo spiegano: significa che un aspetto della sua personalità si inte­ressa al mondo, mentre l'altro è sempre radicato nella concentrazione sulla Suprema Realtà. L'uomo che somiglia a Ganesha vive come ogni altro nel mondo, senza però essere del mondo, concen­trandosi e meditando fondamentalmente sull'Atma.

Ai piedi del Signore, come davanti ad uno yogi, vi è una gran quantità di cibo. Esso simboleggia la ricchezza, il potere e la prosperità materiali, che si possono rag­giungere dopo aver seguito i principi di vita, di cui s'è detto sopra. Sono ai suoi piedi, perché tutti i poteri e le forze cosmi­che sono sempre a disposizione dell'uomo che vive secondo lo spirito di Ganesha.

Vicino al cibo c'è un topolino con lo sguardo rivolto a Ganesha. In altre rap­presentazioni, il topolino viene cavalcato dal piccolo Ganesha nel bel mezzo dei cibi. Ma esso non li tocca. Sembra quasi attendere un cenno per poter fare di tanto in tanto degli assaggi. Il topo è simbolo del desiderio: infatti, come il desiderio, pur avendo una piccola bocca, con la sua tenace e lesta dentatura, può mandare in rovina un intero granaio. È nota l'avidità di questi roditori che rubano più di quanto possano mangiare, abbandonando spes­so le riserve alimentari da loro stessi accumulate. Così è il desiderio. Un solo piccolo desiderio che si insinua nella mente di un uomo può rovinare il patrimo­nio sia materiale che spirituale, raggiunto in anni di faticoso lavoro. Lo sguardo rivolto non al cibo, bensì a Ganesha, denota che il desiderio di un uomo perfet­to è completamente sotto controllo. Le a­zioni di una simile persona sono motivate dalla sua chiara discriminazione e dalla sua facoltà di giudizio, anziché dalla bra­mosia per i vari oggetti del mondo.

Presso gli Indù si crede che sia di cattivo auspicio guardare la Luna nel giorno di Vinàyaka Chatùrti, giorno in cui nacque Ganesha, perché nei Puràna si racconta che la Luna avesse deriso Ganesha, vedendolo cavalcare il topolino. Ma, anche in questa scena c'è un significato di profondo valore. L'uomo che anela alla perfezione usa ogni mezzo, tra quelli che gli sono stati dati, pur di raggiungere la mèta: corpo, mente ed intelletto, in realtà, sono sproporzionati al confronto con l'Atma infinito ed il loro accostamento può sembrare grottesco. Il realizzato non ha mezzi per esprimere o comunicare la sua esperienza dell'Infinito. Per questo, le parole e le azioni dei maestri spirituali ci risultano spesso incomprensibili ed assur­de. La derisione della Luna allegorizza l'ignoranza della mente umana, che trova molti rappresentanti fra coloro che si bef­fano dei sacri insegnamenti e dei grandi maestri dello spirito. L'immagine di Ganesha che cavalca il topolino, dunque, è anche un ammonimento ad evitare la catastrofe che colpisce le generazioni incredule e beffarde.

Infine, il Signore degli ostacoli - Vighneshvara - ha quattro braccia, che rappresentano i quattro attributi interiori del corpo sottile: Manas (la mente), Buddhi (l'intelletto), Ahamkàra (l'Ego) e Cina (la Coscienza condizionata). Ganesha rappresenta la Pura Coscienza, l'Atma che mette in funzione i quattro elementi. In una mano brandisce un'ascia, simbolo della recisione di tutti i desideri ed attac­camenti apportatori di sofferenza; nell'altra una fune, simbolo della forza che attrae il devoto lontano dal caos e dalla confusione per legarlo all'eterna beatitudine del Sé. Nella terza mano tiene una palla di riso, simbolo della felice ricompensa che spetta al devoto. Il devo­to, infatti, man mano che prosegue il suo cammino di evoluzione spirituale, ottiene gioia e appagamento. Nella quarta mano tiene un fiore di loto (padma), che simbo­leggia la più alta mèta dell'evoluzione umana. Con il loto in mano Ganesha con­duce l'attenzione di tutti i cercatori a quel­lo stato supremo a cui ciascuno di essi aspira con le dovute pratiche spirituali e benedice tutti i suoi devoti e li protegge, perché giungano indenni a quella Mèta.

Svàmi Cinmàyànanda



 

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